Paninaro....paninari...e monkler...

                   

Negli anni della Milano da bere, uno dei fenomeni di costume più persistenti ancora oggi nell’immaginario collettivo si è costruito attorno a un panino. Non si tratta di un paradosso ma di una delle espressioni dello zeitgeist degli anni 80, un decennio caratterizzato da un edonismo sfrenato e una grande voglia di disimpegno in netta contrapposizione con il decennio precedente.
I paninari negli anni Ottanta, Foto Getty
Colorati, abbronzati e griffati: erano questo i paninari, una sottocultura giovanile che, non avendo avuto eguali nel resto del mondo, ha rappresentato un prodotto 100% made in Italy pur strizzando l’occhio alla moda americana. Ciò che univa i paninari era un dress code rigoroso fatto di capi d’abbigliamento particolarmente costosi per l’epoca (un outfit paninaro dalla testa ai piedi poteva costare anche ben più di un milione di lire), acquistati per essere fieramente esibiti come status symbol al fast food che fungeva da circolo – più che culturale – superficiale.
Enzo Braschi, che ha eternato il mito del paninaro nella trasmissione cult Drive in
Ma di che cosa parliamo quando parliamo di paninari? Passiamo in rassegna quindi il total look di un gallo o di una sfitinzia (si chiamavano così i ragazzi e le ragazze al passo con l’estetica e l’etica paninara) per capire, a distanza di oltre trent’anni, cosa sia rimasto di quegli anni 80 di «troppo giusto» da indossare ancora oggi.

Tra i capi cult di questo stile c’è, senza ombra di dubbio, il piumino Moncler. È quella giacca da sci scelta in colori sgargianti a dare quella pennellata di colore alle piazze in cui si radunavano i paninari. La reazione dei «sapiens» (gli adulti secondo il gergo della sottocultura) chiamavano spesso in causa l’«omino Michelin» interrogandosi sul successo di quei giacconi bombati più adatti a «Courma» che alla città. Quel legame a doppio filo con i paninari non ha scalfito il prestigio del brand che vive una stagione d’oro anche grazie alla continua capacità di rinnovarsi. Alla linea tradizionale e tecnica, la Grenoble, Moncler ha affiancato il progetto Genius, otto collezioni in chiave couture in cui la classica giacca da montagna è stata rivisitata da grandi designer come Pierpaolo Piccioli o Simone Rocha.
Un gruppo di “sfitizie”, foto IPA
Sotto il Moncler faceva bella mostra di sé la felpa Best Company, ancora più protagonista quando con temperature più miti il piumino lo si poteva portare smanicato. Logo sfacciatamente esibito in un periodo tutt’altro che minimal: il look prevedeva stratificazioni di marchi in cui il nome si doveva leggere forte e chiaro su una base verde, gialla, fucsia, viola dai toni altrettanto squillanti che gridavano l’appartenenza al gruppo. Dopo anni in cui è stata custodita solo nei ricordi, quella felpa è tornata e lo ha fatto alla grande: per il recente rilancio del brand, poco più di un anno fa, è tornato il designer originario Olmes Carretti e Oliviero Toscani, non solo ha curato la campagna, ma ne è stato anche il testimonial.
Fonte vanity  Fair...
   Foto reperite dal web .                           


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